Trap-pole in musica. Cosa ascoltano i nostri ragazzi?
Nei primi anni ’90, all’epoca della mia gioventù, il massimo del “cool” era avere il walkman, ve lo ricordate? Walkman con cuffie rigide a cerchietto e musicassetta autoprodotta, quasi sempre registrando le canzoni dalla radio.
Oggi il fenomeno musicale a cui siamo esposti è molto diverso. I brani creano il loro successo quando sono on-line: sono le visualizzazioni su youtube a generare il tormentone, ciò che tutti devono ascoltare.
La musica arriva nelle case, o meglio, sugli smartphone con una velocità incredibile; musica mentre si studia, mentre si va in bicicletta, mentre si è a scuola o al lavoro, musica prima di dormire. Musica quasi sempre ascoltata in solitaria, attraverso gli auricolari senza fili, fissi nelle orecchie anche quando sono spenti.
Ma cosa ascoltano i vostri figli? Ve lo siete chiesto?
Il genere trap rappresenta senza dubbio la moda del momento. I testi parlano tipicamente di soldi, alcool e droga, mentre la base ritmico/melodica rimane semplice e ripetitiva, quasi ipnotica. Si tratta di una frangia musicale che vede le sue origini nei sobborghi delle grandi città: le “trap house” sono letteralmente gli appartamenti abbandonati e in degrado dove si spacciano stupefacenti e nello slang dialettale, il “trapping” è proprio lo spacciare.
La sfrontatezza dei testi, che mescola turpiloquio a provocazioni sessiste, genera nei giovanissimi una curiosità morbosa che rischia di diventare emulazione.
“Quanto sei porca dopo una vodka/io non lo so cosa ti faccio/però mi cerchi lo so che ti piaccio/sono una merda ragiono col c***o /oggi ti prendo, domani ti lascio” – “Sogno montagne di soldi e i vari modi per spenderli/Giochi con la Gang, mio fratello alza un cannone – La tua tipa è una cagna, vuole un guinzaglio e un padrone”.
Questi sono solo alcuni esempi di come il linguaggio possa diventare veicolo di un’idea sbagliata: la noncuranza con la quale il disprezzo delle regole sociali e la violenza vengono trattate anche da bambini molto piccoli, dovrebbe darci la misura di quanto il fenomeno rifletta un disagio sociale. Non fraintendetemi, non voglio demonizzare il trap a tutti i costi. Negli anni ’70 il “rock maledetto” la faceva da padrone. Chi di voi non ha ascoltato i brani dei “Sex Pistols” cantandoli in un inglese stentato senza conoscerne il testo… Jim Morrison, solo per citarne uno, dichiarava di scrivere i testi delle sue canzoni solo quando era sotto l’effetto dell’LSD! Ma il rischio è proprio questo, diffondere parole e pensieri negativi attraverso mezzi di trasmissione onnipresenti e poco controllabili.
Le piattaforme di scambio musicale, si pensi a Spotify e Youtube, sono abitualmente a portata di click, nelle mani dei nostri figli e permettono loro di esplorare qualsiasi tipo di esperienza musicale (e non) senza alcun controllo.
Ma cosa li spinge, oltre la curiosità, ad appassionarsi al trap?
Io credo che primariamente ci sia un bisogno di appartenenza al gruppo. Se tutti i miei amici e compagni ascoltano lo stesso pezzo e lo canticchiano in modo ripetitivo, io mi sento quasi obbligato ad ascoltarlo a mia volta, a farmelo piacere per forza.
Negli ultimi mesi, insieme al collega musicista Federico Benini, siamo stati in diverse scuole medie per portare avanti un progetto contro il bullismo e cyber bullismo, dal titolo “Musica da s-bullo”. Abbiamo in questo modo l’opportunità di confrontarci con la viva voce dei ragazzi che si raccontano attraverso la musica che ascoltano e ci rendono partecipi degli stati d’animo che la loro musica accompagna.
Il numero di ragazzi che ascoltano il trap è davvero alto, ma quando ragioniamo con loro sui testi, candidamente ci dicono di non condividerli e anzi, di vederli spesso come “sbagliati”. Ascoltano o guardano (sui video che accompagnano i brani ci sarebbe da fare una lunga dissertazione a parte) il trap “perché lo fanno tutti”, oppure “perché così siamo fighi, prof!”.
In pochi conoscono i grandi classici della storia musicale moderna; qualcuno ci chiede cosa sia il “reggae” e ci guarda con occhioni sbarrati quando raccontiamo dei gruppi musicali che si opponevano alla guerra del Vietnam e che facevano ribellione sociale con una chitarra in mano… Credo personalmente che come adulti siamo assolutamente responsabili di ciò che i nostri ragazzi ascoltano; dobbiamo costruire un percorso di educazione musicale che non li faccia balzare dalle canzoni dello Zecchino d’oro, messe in loop in auto per farli stare tranquilli, alla solitudine del web e tutto ciò che ne consegue.
a cura di
Alessandra Tozzi
Psicologa e formatrice