Il mito del talento: come avere successo nello sport e nella vita
Come avere successo nello sport e nella vita
Katie nel 2003 ha 6 anni. Ha imparato a nuotare da poco ma ha già un idolo sportivo: Michael “il cannibale” Phelps. Il nuotatore più medagliato della storia. Phelps, proprio in quell’anno, le firmerà un autografo dopo una gara nell’Università del Maryland, in cui, come sempre, non c’è stata storia. Ha vinto lui.
Nove anni dopo Il Cannibale di Baltimora “schiaccia un cinque” a questa ragazzina di 15 anni che sta per affrontare la sua prima gara olimpica. Siamo a Londra 2012. Gara degli 800 metri stile libero femminile. La sua specialità. Katie è in corsia 3. Nei primi 100 metri stacca le avversarie più dirette. Poi nuota solo contro il cronometro. Centra l’oro e sfiora il record del mondo.
E’ qui che Katie Ledecky, 15 anni, diventa famosa in tutto il mondo e non solo nei ristretti ambienti del nuoto. Katie, la predestinata. Katie, l’anello di congiunzione tra il nuoto femminile ed il nuoto maschile. Le definizioni si sprecano. Talento cristallino. Nel 2015 un momento chiave della carriera sportiva di Katie sono i mondiali in Kazan dove lei si presenta per vincere tutto, nello stile libero. 200, 400, 800, 1500 e staffetta 4×200. Fu proprio nei 1500 che successe un fatto insolito. In una batteria di qualificazione, vista probabilmente da poche persone in tutto il pianeta, Katie nuota e stabilisce il nuovo record del mondo. Facile come bere un bicchiere d’acqua.
Nell’intervista successiva Katie afferma: “questo record è il segnale della mia forma fisica ed il frutto di tutto il lavoro che ho svolto fino a qui”. Non ha mai fatto cenno al suo talento. Alla sua superiorità. Ha parlato solo di allenamento ed impegno.
Torniamo al 2003. Proprio in quell’anno una brillante neo dottorata in psicologia ad Harvard (USA) elabora come tesi di dottorato la “Grit Scale”. Un test che misura la “Grinta”. Cioè ciò che la ricercatrice di origini asiatiche, Angela Lee Duckworth, identifica come la PASSIONE moltiplicata per L’IMPEGNO.
Da allora la Grit Scale ha avuto importanti validazioni in molti ambiti: scuola, lavoro, sport. Proprio come Katie Ledecky. Passione e soprattutto IMPEGNO.
Da qui A. Duckworth trasse, successivamente, la sua “equazione per il successo”,
che consta di due fasi:
fase 1 Abilità = talento X impegno
fase 2 Successo = abilità X impegno
Ossia: hai talento? Se ti impegni, prima sviluppi le abilità che ti servono. Sviluppate quelle, con una ulteriore iniezione di impegno, puoi arrivare al successo. A dire: il talento non è sufficiente. Nell’equazione entra solo una volta. Ciò che conta davvero è l’impegno. La persecuzione “maniacale” del gesto perfetto.
Cosa differenzia Cristiano Ronaldo da altri giocatori? Il talento? No. La maniacalità. La ricerca della perfezione in ogni aspetto del suo “essere calciatore”. Come trasferire tutto questo ai nostri figli? Quattro sono i punti chiave, a mio avviso, su cui possiamo lavorare.
1) INTERESSE.
Spesso si crede che l’interesse sia un colpo di fulmine. Ad esempio: scopro la musica e ne vengo immediatamente rapito, tanto da voler diventare assolutamente e per sempre un musicista. In realtà l’interesse si forma nel tempo. Ciò che genitori ed educatori in genere devono favorire è l’esplorazione. In altri termini a chi mi chiede se deve forzare il proprio figlio a fare sport, rispondo con un netto “sì, a patto che lo lasci libero di esplorare i vari sport se lo desidera, a cominciare da dove preferisce. Rendendogli solo chiaro che deve rispettare un minimo di impegno”. Cioè: dopo un paio di prove, fermarsi in quello sport e concludere almeno un ciclo (stagione) di allenamenti.
2) PRATICA DELIBERATA E RESILIENZA.
Secondo un famoso studio, occorrono 10.000 ore di pratica per diventare esperti in qualsiasi campo, dalla musica, allo sport. Non sto a sindacare se DIECIMILA siano tante o poche. Ciò che non fa una piega, invece, è che occorre impegno. Tanto.
E non sempre il perseguire i propri interessi con tanto impegno genera piacere. Chiedetelo a qualsiasi atleta professionista. Ci sono giorni in cui la fatica è talmente tanta (così come la paura di non farcela) che vorrebbero cambiare vita. Tornare ad una “vita normale”. Proprio come noi. Il mantra del “se solo…”. “Se solo fossi più bello, bravo, intelligente, magro, alto….”.
Insegnare che la sofferenza e la fatica sono parte del gioco e non sensazioni da evitare, può essere la chiave.
3) DATEMI UN PERCHE’ E VI SOLLEVERO’ IL MONDO.
Un giorno a tre muratori venne chiesto cosa stavano facendo. “Tiro su un muro”, rispose il primo. “Costruisco una chiesa”, affermò il secondo. “Costruisco la casa del Signore”, disse il terzo. Il primo aveva un lavoro. Il secondo una carriera. Il terzo una vocazione.
Avere molto chiaro il perché si fa qualcosa è avere molto chiari i propri valori e non solo i propri obiettivi.
La differenza tra i due è che gli obiettivi si raggiungono, i valori invece non si raggiungono mai e guidano i nostri giorni. Posso diplomarmi o laurearmi, ma mai finire di aver voglia di conoscere, se questo è un mio valore. Insegnate ai vostri figli a chiedersi il perché, non appena saranno adolescenti. Questo sarà un grande driver motivazionale.
4) MINDSET. Parola molto di moda. Ha a che fare con la speranza e può essere tradotta come atteggiamento. Se insegno che il talento se non ce l’hai non vale la pena impegnarsi insegno ciò che viene definito un “mindset fisso”, che favorirà l’abbandono e castigherà la motivazione.
Se insegno e premio l’impegno per raggiungere i propri obiettivi e, perché no, i propri sogni, favorirò un “mindset incrementale”. Un toccasana per la motivazione e per il senso di efficacia dei nostri piccoli. Ecco un esempio: “Questa è difficile, non prendertela se non ti riesce” (mindset fisso); “Questa è difficile, non prendertela se ANCORA non ti riesce” (mindset incrementale). Hernest Heminghway diceva: il successo è 1% ispirazione (inspiration) e 99% sudore (perspiration). Oggi queste parole trovano molte conferme in campo accademico e come applicazione.
Per arrivare ad applicarle tuttavia non basta conoscere la teoria. Questa è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Il modo migliore è iniziare da se stessi.
Poniamoci questa semplice domanda: quanto ancora credo al mito del talento?
a cura di Marco Bonvento presidente Fidal (federazione italiana atletica leggera), esperto in mental training