Competizione, sana abitudine o cattivo esempio?

La competizione nei bambini è un elememto di cui spesso si discute. C’è chi ritiene sia una sana abitudine,che stimola nel bambino voglia di fare e portare a termine qualcosa, legata alla soddisfazione personale, e chi invece la considera dannosa per lo sviluppo del bambino, che si vede “giudicato” in caso di fallimento. La competizione in età pre-scolare non è un elemento sempre insito nel bambino: alcuni la sviluppano naturalmente mentre altri vengono sollecitati a formarla. A questa età le attività del bambino sono essenzialmente “giochi strutturati” che dovrebbero avere il solo scopo di divertire e formare varie competenze motorie e cognitive. Sempre più spesso, tuttavia, si iniziano attività sportive dai 3 o 4 anni, con relative gare e competizioni che, se per i bambini dovrebbero ancora essere vissute come “gioco”, talvolta per i genitori sono vissuti in modo differente. È questo atteggiamento a creare l’ansia da competizione nel bambino e ad impedirgli di vivere serenamente l’esperienza sportiva o collettiva. Ridurre tutto al risultato non è mai una cosa positiva per il bambino, che perde di vista tutto ciò che di costruttivo deriva da attività di squadra o dalla spensieratezza del momento.

mani-in-altoDiversamente, in età scolare, è più frequente che nel bambino nasca l’istinto di “arrivare primo”, essendo sempre sollecitato da ciò che lo circonda e dall’atteggiamento dell’adulto, ed è in questa fase che il deve imparare a tollerare la frustrazione e accettare la vittoria dell’altro. Ultimamente invece vi è una tendenza ad eliminare ogni tipo di frustrazione secondo la formula del “vinciamo tutti”; se da una parte è vero che incentrare tutto sul risultato sia controproducente, dall’altra il bambino, nel suo essere complesso e in formazione continua, non va considerato eccessivamente fragile e bisognoso di essere protetto da tutto ciò che lo circonda. Un approccio troppo protettivo può infatti essere dannoso per il suo sviluppo emotivo. Provate a immaginare un bambino al quale non viene mai fatta provare una frustrazione o una sconfitta: crescerà incapace di far fronte alle difficoltà della vita e penserà che tutto ciò che capita di negativo derivi da una sua incapacità personale
La giusta via di mezzo (e qui entra in gioco il concetto positivo di competizione) sta nell’imparare a tollerare gli insuccessi, capendo che dagli errori e dai fallimenti si può solo imparare a far meglio
Attenzione, non si deve pretendere che il bambino non sia triste o non si arrabbi di fronte alla frustrazione, poiché lo sfogo delle emozioni è un momento positivo in cui si capisce che il bambino tiene a ciò che sta facendo; questo diventa però disfunzionale se totalizzante, cioè se il bambino non si consola e si sente completamente sopraffatto dalla negatività dell’esperienza.

Un ruolo chiave è quello del genitore, che deve insegnare al figlio che a scuola, così come nello sport, si può anche sbagliare, ma l’importante è imparare a reagire positivamente.
Il ruolo del genitore è essenziale soprattutto nel dare l’esempio: il bambino cresce per imitazione e, oltre al gruppo dei pari, il principale soggetto di imitazione è proprio il genitore, che egli vive come esempio da seguire, nel bene e nel male.

Sta quindi al genitore aiutare il figlio a reagire e superare paure, difficoltà o ostacoli che gli si presenteranno, inevitabilmente, nel corso della vita.
I fatti di Gela di qualche tempo fa ci insegnano come siamo spesso noi a creare nei bambini i presupposti per trasformare la competizione da sana a negativa: due mamme che si picchiano per avere il posto migliore alla recita del figlio non può che trasmettere l’idea che tutto ci è dovuto, a discapito degli altri e giustificando la violenza verbale e fisica; i genitori che insultano l’arbitro o i giocatori durante le partite dei figli, insegneranno loro che abbiamo sempre ragione, che il denigrare l’altro è giusto e che la sconfitta non è contemplata se non distruggendo l’immagine altrui, delegando la responsabilità e le proprie colpe sugli altri. Ricordiamoci sempre che noi adulti siamo lo specchio dei nostri figli, e se vogliamo che crescano indipendenti, sicuri e rispettosi dobbiamo noi per primi mostrarci tali ai loro occhi.

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a cura di
Desirèe Cobianchi
Psicoterapeuta familiare
e coordinatrice La Fiondina

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