Carnevale e le maschere polesane
All’approssimarsi del mercoledì delle Ceneri, inizio della Quaresima, i raduni collettivi in piazza e in luoghi pubblici o privati, un tempo più diffusi e frequenti di oggi, rendevano vive le feste che si organizzavano per chiudere nella massima allegria il tempo del Carnevale.
Oltre ai caratteristici carri allegorici, spesso allestiti da gruppi di giovani, assemblando su semplici carretti o rimorchi, ridicole scenografie con materiali di recupero, venivano organizzate feste da ballo con orchestrine ed anche gare con quei giochi tradizionali caratteristici di sagre paesane in altri periodi dell’anno.
Spesso non mancava l’albero della Cuccagna, un lungo palo di legno, ben fissato nel terreno, alla cui sommità, legati ad un cerchio metallico, penzolavano prodotti mangerecci, in particolare salami, bondiole, polli. A turno squadre di giovani si cementavano nell’arrampicarsi per raggiungere quanto posto in palio; l’impresa non era semplice, in quanto l’albero era stato ben unto con grasso e, pertanto, la presa di mani, braccia e gambe per salirlo era ben difficile.
A fatica e dopo vari tentativi era il lavoro di squadra a raggiungere l’obiettivo: i componenti, abbracciando il lungo palo, sviluppavano una colonna umana con i piedi di uno sopra le spalle dell’altro.
Gioco frequente era anche quello della rottura delle pignatte, vasi di terracotta, chiusi con un canovaccio e dal misterioso contenuto, che venivano legati su una pertica debitamente sospesa dal terreno. I vari concorrenti, bendati e muniti di un bastone, avevano un certo numero di possibilità per cercare di colpirli e, rompendoli, prendere quello che ne usciva: andava bene se si trattava di una gallina viva, del solito salame, di un dolce…ma potevano anche uscire cenere, acqua, gatti, topi e altro!
Per l’area medio-bassa polesana era frequente incontrare il Bombasin, una singolare maschera zoomorfa, che vagava isolata, al guinzaglio del suo domatore-accompagnatore, o faceva da battistrada a cortei di burloni in altri stravaganti abbigliamenti.
Il nome locale dato al Bombasin forse deriva da bombasina, stoffa di cotone (chiamato in dialetto bombaso) con la quale veniva confezionato il mantello che copriva la persona travestita. In tempi recenti questo travestimento è stato riproposto da Adriano Salvagnin di Adria, che, coinvolgendo familiari ed amici, si esibisce in incontri e feste.
Il Bombasin poteva rappresentare vari tipi di animali, vagamente intuibili da come veniva elaborata la testa, spesso sagomata con pelli di coniglio, alla quale si applicava un ampio mantello per coprire il portatore mascherato. Rispetto all’asino, al drago, alla capra, prevaleva la figura del toro. Un particolare accorgimento consentiva di far sbattere ripetutamente la mandibola con la mascella, che essendo entrambe di legno, originavano un cupo frastuono, rendendo ancor più minaccioso l’aspetto della maschera.
Questo originale travestimento, in uso nelle nostre zone fin ai primi anni Cinquanta del secolo scorso, era sicuramente espressione di tradizioni piuttosto arcaiche, legate a feste campestri europee e presentava analoghi richiami in aree ben lontane dal nostro Polesine, dalla Spagna all’area alpina, dalla Romania alla Scandinavia.
Nella nostra più recente versione locale aveva sviluppato la primaria finalità di andare per le case a questuare generi alimentari per poi condividerli e consumarli in allegra compagnia. Il Bombasin, infatti, si spostava sempre accompagnato da un ristretto numero di compagni: non mancava mai il bovaro, suo domatore, che lo teneva al guinzaglio e con il pungolo lo stimolava nel proseguire il cammino o lo tratteneva dal suo estroso comportamento di rincorrere donne e bambini; al seguito facevano parte anche due o tre suonatori, normalmente con chitarra, fisarmonica o violino. Il gruppo si fermava nei cortili, nelle piazze, per strada, dando vita ad un concertino festoso.
Il Bombasin ovviamente teneva banco, saltellando ripetutamente sempre sotto il controllo del bovaro, facendo tintinnare campanelli e svolazzare vistosi nastri colorati fissati alle spalle del mantello. Anch’io lo ricordo tanti anni fa venire a farci visita nella casa di Fenil del Turco.
“Ero bambino, con mio fratello verso sera l’ho visto con i suoi compagni danzare e cantare sull’aia. Mio padre consegnò alla combriccola una bottiglia di vino, mia madre porse un’offerta in denaro e fu il Bombasin a portarsi di scatto verso di lei, aprendo la spaventosa bocca da cui uscì una mano a prendere repentina la banconota.”
Anche il tempo del Carnevale giungeva presto al termine.
Secondo alcune testimonianze tramandate oralmente da anziani, per la sua fine un fantoccio che lo rappresentava era destinato ad una sorte che richiamava quella della Vecia.
In questo caso il cosiddetto Re del Carnevale veniva sottoposto ad un burlesco processo che si concludeva sempre con la sentenza di condanna: poteva essere sotterrato o gettato in un fiume.
Si iniziava così il periodo penitenziale della Quaresima, che per la radicata fede, unitamente alla sofferente situazione economica, la gente contadina affrontava nel pieno rispetto in preparazione alla grande festa pasquale della Resurrezione, coincidente con il progressivo, rinnovato risveglio della natura e della potenzialità produttiva della fertile campagna.
Fracanàpa
Un’altra maschera polesana, non specificatamente carnevalesca ma legata alla Commedia dell’Arte e al teatro dei burattini, è Fracanàpa. Rappresenta un personaggio con un grande naso (canàpa in dialetto sta per naso), porta un cappello tricorno, è di aspetto curato con marsina scura e vistoso panciotto rosso o giallo, parla scandendo di tanto in tanto le sillabe e storpiando qualche parola. Fa gruppo con i più noti burattini Fasolin e Sandron.